ESCLUSIVA TC - ANGELO DOMENGHINI: "Gigi Riva era la nostra punta di diamante: senza di lui non avremmo vinto lo Scudetto. Che errore il passaggio dall'Amsicora al Sant'Elia!"

La libellula di Lallio. Un Angelo che volava sulla fascia destra, leggiadro ed elegante come una nuvola, e inventava calcio a beneficio degli attaccanti, senza disdegnare di concludere egli stesso l’azione e di gonfiare la rete con i suoi inserimenti in area di rigore e le sue proverbiali staffilate dalla distanza.
Dalla profonda provincia bergamasca al sole sfavillante della Sardegna, che l’ha conquistato e rapito al punto tale che ancora oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, soprattutto d’estate lo puoi trovare felicemente spaparanzato sulle spiagge dell’Isola ad abbronzarsi e a godersi il relax dei suoi (quasi) ottantadue anni. Ottantadue anni vissuti sempre al massimo e con l’ambizione di migliorarsi giorno dopo giorno, senza porre limiti ai traguardi da ottenere, ai trionfi da collezionare, alle coppe da sollevare. Con in tasca uno Scudetto che vale tutta una vita, lo Scudetto di una terra e di sedici Giganti che abbatterono stereotipi e pregiudizi e dischiusero alla Sardegna le porte del mondo.
Nel palmarés da capogiro di Angelo Domenghini figurano, tra le altre gemme, una Coppa dei Campioni e due Coppe Intercontinentali vinte con l’Inter, un Campionato Europeo conquistato con la maglia della Nazionale e un secondo posto, ottenuto sempre in azzurro, al Mondiale del 1970 in Messico, quando dopo un torneo epico si dovette arrendere solo allo strapotere di sua maestà Edson Arantes Do Nascimento.
Gli brillano gli occhi quando gli si chiede di ricordare i suoi trascorsi in rossoblù, “perché nessuno si aspettava che potessimo vincere uno Scudetto e invece, battendo tutti gli squadroni del Nord uno per uno, abbiamo sbaragliato la concorrenza e ottenuto un risultato irripetibile”.
Domingo, quali sono le immagini, i ricordi, le istantanee che le sono rimaste più impresse delle sue quattro stagioni, dal 1969 al 1973, vissute con addosso la maglia dei quattro mori?
“Cagliari per me è stata una grande avventura. Ho trascorso lì quattro anni splendidi, compreso il primo – campionato 1969/70 – in cui abbiamo vinto uno Scudetto strameritato. Anche i miei compagni sono stati bravissimi, in quell’occasione, a fare tutto quello che chiedeva Scopigno. Così siamo andati oltre le più rosee aspettative. Nessuno avrebbe mai osato sperare che quella squadra potesse laurearsi Campione d’Italia, invece abbiamo sbaragliato tutte le grandi e abbiamo compiuto un’impresa memorabile.”
Restando all’anno del tricolore, a suo avviso qual era il vero, grande segreto della vostra squadra, aldilà dei nomi altisonanti dei singoli che la componevano?
“Beh, non posso prescindere dai nomi, e il primo nome che devo fare è – giocoforza – quello di Gigi Riva. Anche perché senza di lui lo Scudetto di sicuro non l’avremmo vinto. Noi tutti si giocava per Gigi, si cercava di servirgli l’ultimo passaggio per mandarlo in porta e poi lui gonfiava la rete, perché aveva delle caratteristiche uniche. In ogni partita centrava la porta, e o segnava o andava vicinissimo al gol. La sua cattiveria, la sua furia agonistica, la sua voglia feroce di andare in rete erano esemplari. Viveva per il gol.”
Ma anche lei contribuì significativamente, con otto reti, alla vittoria del campionato. Imperversava sulla fascia destra e poi si trasformava in attaccante, andando a concludere l’azione sempre con grande precisione.
“Il mio ruolo è sempre stato quello. Sia al Cagliari che, precedentemente, all’Inter e all’Atalanta. Facevo il tornante di destra ma anche il centrocampista offensivo. A Cagliari accanto a me giocava Nené, e ogni tanto ci scambiavamo le consegne: lui faceva il tornante di destra e io occupavo la sua posizione di centrocampista.”
Angelo, un dubbio che ha sempre assillato i tifosi del Cagliari: come mai il ciclo di quella grande squadra che dominava il calcio italiano durò così poco? È tutto riconducibile al famoso infortunio di Gigi Riva che nel campionato 1970-’71, dopo un inizio di stagione a dir poco sontuoso, vi condizionò al punto da farvi sprofondare a metà classifica? O ci sono anche altre ragioni alla base del rapido declino che fece tramontare il sogno di un secondo Scudetto?
“Posto che giocare con o senza Gigi Riva faceva tutta la differenza del mondo ed era come passare dal giorno alla notte, perché senza di lui eravamo una squadra normale mentre con lui eravamo ultracompetitivi, c’è da dire che gli altri anni non siamo stati capaci di riproporci ai livelli del ’69-’70. Ma pongo l’accento su un aspetto che, a mio avviso, non viene mai abbastanza sottolineato: il passaggio dall’Amsicora al Sant’Elia. Quello è stato un errore clamoroso. All’Amsicora, stadio piccolo con effetto-catino e il pubblico assordante che ci sosteneva e intimoriva gli avversari, potevamo anche giocare male, ma vincevamo sempre. Al Sant’Elia invece le altre squadre venivano a giocare tranquille e in panciolle, perché il campo era troppo grande e il pubblico era troppo distante da noi giocatori. Era uno stadio che non andava bene per Cagliari e per il Cagliari: basta guardare l’Unipol Domus attuale, che conta diecimila spettatori. All’epoca il Sant’Elia aveva una capienza di sessantacinquemila spettatori, e ho detto tutto. Inoltre all’Amsicora avevamo i nostri punti di riferimento, come ad esempio una rete di ferro dietro a un palo, che ci aiutavano a prendere la mira al momento del tiro in porta. E soprattutto Gigi, quando tirava, non sbagliava mai. Ci provavamo sempre anche io, Gori, Nené...”
Segue ancora il Cagliari? Ha saputo della promozione ottenuta un mese fa al San Nicola di Bari? Con quali prospettive si affacciano i rossoblù in serie A con una guida esperta e navigata come Ranieri?
“C’è da dire che l’esperienza dell’allenatore in serie A conta fino a un certo punto. Un tecnico esperto che allena una squadra debole non può fare risultati. Bisogna che i giocatori abbiano determinate caratteristiche, che giochino bene insieme e che siano animati da una grande voglia e fame di vittoria. In questo caso si possono raggiungere dei traguardi anche insperati. Tutte le squadre che disputeranno il prossimo campionato di serie A vogliono vincere e ottenere il miglior piazzamento possibile. Servono cattiveria, determinazione e soprattutto un centrocampo di qualità. Il centrocampo è la vera forza di una squadra di calcio: senza un buon centrocampo non si va da nessuna parte. Con dei centrocampisti forti, invece, tu puoi anche avere degli attaccanti mediocri, ma la palla la butteranno sempre dentro.
Il Cagliari ora sta investendo su profili giovani, ma attenzione: i giovani devono avere anche una buona esperienza, altrimenti fanno fatica ad alzare l’asticella e ad adattarsi in poco tempo a un torneo come la serie A. Non è facile trasformare rapidamente un giovane inesperto in un calciatore di livello di una squadra che è appena tornata in massima divisione.”