CALCIO, LA SARDEGNA CHE NON VA
di Vittorio Sanna
Uno sport piccolo piccolo in una terra di giganti. Il calcio sardo non può che domandarsi il perché di quel che i numeri spietatamente mettono sotto gli occhi. Come è possibile che all’Olimpiade in cui partecipano 11.475 atleti provenienti da 205 paesi del mondo in 45 discipline ci siano 8 atleti sardi di primo livello e nel calcio di Serie A, malgrado il gran movimento, su 638 calciatori del campionato italiano, non si riesca a raggiungere lo stesso numero. Me li immagino ringhianti i cani da guardia del calcio ruggire la scarsa valenza degli altri sport e per questo mi piace la polpetta da rendere indietro in cui sottolineare che la stragrande maggioranza di chi proviene dagli altri sport, mette la passione davanti a tutto, compreso il miraggio del successo e del facile guadagno.
Tacciare chi arriva alle Olimpiadi come figlio di un dio minore è quanto di più ignobile si possa fare. Basterebbe sommare le ore di allenamento, le occasioni per vincere, i modi e i tempi del percorso per far comprendere che il sogno a cinque cerchi forgia donne e uomini capaci di autodisciplina, dedizione, costanza, resilienza, motivazione, coraggio, sani principi. Anni e anni per migliorarsi, guardando a se stessi, rispettando gli avversari, senza cercare scuse. Viene da pensare che siano proprio queste caratteristiche, in mancanza di interessi speculatori, di intrecci politici e finanziari, di caste e scuderie, che permettono l’affermazione dei nostri ragazzi, in un principio meritocratico che il calcio forse ha smarrito.
Brillano le medaglie e in molti casi per qualità atletiche che si sposano con esclusività comportamentali. Ci sono indizi pesanti. Com’è che Manuel Cappai, calciatore fino a 16 anni, mantiene ancora oggi il record del più giovane pugile italiano alle Olimpiadi? Eppure ha indossato i guantoni quando era già grande. Com’è che lo stesso Lorenzo Patta era un buon calciatore a livello regionale quando Francesco Garau lo scova e lo aiuta a diventare il velocista medaglia d’oro nella staffetta? Due casi e tanti pensieri. Il primo porta al muro da scavalcare: per tutti i nostri ragazzi emergere non è facile ma se lo sbocco c’è, con caparbietà sanno arrivare anche in tetto al mondo, cosa che nel calcio forse è precluso da logiche e profitti da gestire con le squadre ricche (meglio valorizzare un calciatore a pagamento di altro vivaio che far sbocciare i nostri).
Il secondo è che i tempi e i modi della maturazione degli uomini che poi diventano atleti nel calcio sono stretti e inquinati, tanto che il giudizio estremo, la bocciatura, la selezione e la dispersione, negano l’affermazione del talento che ha bisogno di maturarein totale fiducia e serenità. Quando Stefano Oppo è stato scelto per puntare su di lui, non era il miglior canottiere ad Oristano. Ne hanno individuato le prospettive di crescita, anche sul piano psico emotivo, dal punto di vista comportamentale. Punti basilari da analizzare.
Bisogna rivedere l’idea, il perché dello sport, riportandolo all’obiettivo di crescita e formazione di tutti, a prescindere dal mestiere finale. È necessario abbattere il tecnicismo giovanile, la tattica e la vittoria ad ogni costo che soddisfa la frustrazione e le ambizioni degli adulti e non la crescita, la fantasia, l’affermazione dei ragazzi in un clima di concorrenza leale. È utile prendere esempio dal sorriso e la serenità di Stefano Oppo, di Marta Maggetti, di Sergio Massidda, dei campioni che verranno per capire che il successo è la conseguenza di corrette azioni quotidiane, di stili di vita, di comportamenti e non di esasperanti ed esasperati formatori (genitori compresi) che con la bava alla bocca chiedono ai giovani atleti non di essere felici ma di essere solo e esclusivamente i primi.
Il modo giusto per rendere infelici 999 ragazzi su 1000 che iniziano a praticare calcio. Con una dispersione che poi affonda e si intreccia con il modo di vivere della nostra società che dovrebbe ripartire dalla corretta concezione di fondare le proprie dinamiche sui valori, prima di conoscere il valore e saperlo indirizzare ad un ruolo che diventi gratificante nel nostro complesso modo di vivere.