ESCLUSIVA TC - JONATHAN ZEBINA: "Ventura maniacale, quella squadra era un meccanismo perfetto. Inspiegabile la retrocessione del 2000. Auguro al Cagliari e alla Sardegna tutto il bene del mondo"

Era arrivato appena ventenne dalla Francia, con una valigia carica di sogni e di incertezze, per tuffarsi senza salvagente nell’avventura elettrizzante del campionato più bello e più difficile del mondo. Con la famiglia al seguito, e pochissima esperienza da professionista alle spalle, era sbarcato nell’Isola senza squilli di tromba o rulli di tamburi, da illustre sconosciuto, ma con un entusiasmo e una passione addosso che avrebbe presto trasformato in applicazione e in feroce determinazione sul campo.
La scommessa – un po’ folle – era targata Massimo Cellino, che nella primavera del 1998 aveva visto questo lungagnone francese giocare nel Cannes e difendere la propria porta con la grinta di un mastino e l’eleganza di un ballerino. Abile nello stacco aereo, roccioso in marcatura, veloce e reattivo nelle diagonali e negli interventi in recupero, Jonathan Zebina era stato individuato dal presidente come il rinforzo giusto per una retroguardia che, dopo la promozione dell’anno precedente, si apprestava ad affrontare i mammasantissima della serie A.
E nelle rotazioni di Gian Piero Ventura il gigante parigino avrebbe trovato largo spazio, mettendosi in mostra come un difensore arcigno e affidabile e divenendo, ben presto, anche un idolo del Sant’Elia: memorabili le sue esultanze sotto la curva Nord, dopo ogni vittoria, con le braccia alzate al cielo a scandire gli “olè” dei tifosi festanti.
Jonathan, partiamo dal principio: come ricorda il suo arrivo a Cagliari e il suo impatto con la serie A ultracompetitiva dell’epoca, nella stagione 1998-’99?
“Quella fu un’annata magica. Arrivavo dal Cannes, dove avevo disputato una stagione che si era chiusa, purtroppo, con una retrocessione. Anche per questo motivo erano davvero in pochi, a parte il presidente Cellino, quelli che a Cagliari avrebbero scommesso su di me. Ma io arrivai con grandissima voglia di far bene e con una fortissima motivazione. Ricordo che la preparazione fisica fu piuttosto faticosa e complicata, ma giorno dopo giorno capivo che ce l’avrei potuta fare a ritagliarmi uno spazio in squadra. Eravamo in tre o in quattro a contenderci un posto, dato che in difesa si giocava a tre, e io ero convinto di poter avere una possibilità. Dovevo dimostrare il mio valore negli allenamenti e sfruttare le amichevoli per mettermi in mostra.
E infatti, poco prima dell’esordio in campionato contro l’Inter, il mister Ventura mi disse che sarei stato titolare. Ruppi subito il ghiaccio con un intervento - che a distanza di anni ricordo incredibile, sensazionale - su Roberto Baggio. Così cominciò la mia avventura in Italia.”
Come descriverebbe il calcio di Ventura e, in generale, la filosofia dell’allenatore genovese?
“Praticavamo un calcio decisamente d’attacco per essere una squadra con poca esperienza ad alti livelli e certamente non in lizza per posizioni di vertice. Eravamo sempre noi a dettare il gioco e ad avere il possesso della palla.
Arriverei a dire che quel Cagliari è stata una delle squadre, tra quelle nelle quali ho militato in Italia, che giocava meglio in senso assoluto. Del resto con Ventura non c’era minimamente spazio per l’improvvisazione: tutto era studiato nei minimi dettagli e con cura maniacale, dalla costruzione del gioco ai movimenti dei difensori, dagli schemi su rimessa laterale o su calcio di punizione alle strategie adottate dagli avversari.
Sono stato molto fortunato a trovare, al mio esordio in Italia, una squadra così organizzata e dei compagni così disponibili ad aiutarmi e a sostenermi nel mio percorso di crescita. Avevano capito subito che cercavo di dare sempre il massimo e non mi risparmiavo. Non era facile per me, giovane e inesperto com’ero, misurarmi con un calcio tanto competitivo, ma il fatto di avere alle spalle un mister preparato e un gruppo molto unito è stato indubbiamente un grande vantaggio.
E poi non dimentichiamoci che quel Cagliari era composto da signori giocatori: da Muzzi a O’Neill, da Macellari a Vasari, passando per tutto il reparto difensivo. Era una formazione con dei valori tecnici elevati, dalla spiccata intelligenza tattica e dotata di una forte personalità. Per me era la situazione ideale per affermarmi.
L’unico neo di quella squadra era la differenza di rendimento tra le partite in casa e quelle in trasferta. Ma c’è da dire che proponevamo un calcio piuttosto innovativo per l’epoca: mister Ventura, ad esempio, ci faceva iniziare la costruzione del gioco da dietro, dai difensori. Un’ovvietà oggi, ma per l’epoca era un approccio quasi rivoluzionario. Magari questo atteggiamento in trasferta funzionava meno bene che in casa, perché trovavamo degli avversari più gasati e in fiducia che ci pressavano alti nella nostra metà campo. Al Sant’Elia era diverso: avevamo dalla nostra il pubblico e, cosa da non sottovalutare, un terreno di gioco che conoscevamo a memoria. Tutte queste componenti ci davano un pizzico di convinzione in più.”
Veniamo all’anno successivo, con Tabarez prima e Ulivieri poi. Le cose andarono male, nonostante la squadra sembrasse tecnicamente valida e non certo destinata a una retrocessione che, invece, arrivò con largo anticipo, sorprendendo un po’ tutti.
“Ci girò male fin dall’inizio. Tabarez era un grandissimo allenatore e un grandissimo uomo, e aveva raccolto da Ventura l’eredità di una squadra che giocava a memoria, con tattiche e schemi collaudati da un anno di rigorosa e costante applicazione. Non era facile cambiare modo di giocare, mentalità e atteggiamento a quel Cagliari. Ma c’è da dire che fummo anche sfortunati, perdendo all’inizio del campionato delle partite che avremmo dovuto almeno pareggiare e cadendo così in una spirale di negatività. Giocavamo in realtà molto bene, creando sempre tante occasioni da gol, ma non riuscivamo a vincere. Tanto che il primo successo arrivò solo dopo la sosta di Natale.
È stato un peccato che sia finita così, anche perché non mancavano i giocatori di talento e di classe superiore. Ma, se vogliamo, era un po’ la cifra distintiva della serie A dell’epoca: si giocava tutto sui dettagli, tanto alto era il livello e lo spessore tecnico delle squadre. Una stagione poteva andare molto bene, come la prima con Ventura, o magari poteva riservarti l’amara sorpresa di una retrocessione inaspettata, con in organico buona parte degli stessi giocatori dell’anno precedente.
Non ci fu nessuno di noi che in quel campionato non diede il cento per cento di sé stesso. Facemmo tutto il possibile, ma andò male e a volte, per annate del genere, non esiste neanche una spiegazione razionale.”
Jonathan, non so se abbia seguito i playoff di qualche giorno fa, ma il Cagliari è appena tornato in serie A sotto la guida di mister Ranieri. Che sensazione le dà questa notizia e cosa si auspica per il futuro dei rossoblù in massima serie?
“Io auguro al Cagliari, alla società, ai tifosi e in generale alla Sardegna tutto il bene del mondo. Sono ancora molto attaccato a questa squadra e a questa terra, che mi ha accolto a braccia aperte quando ero solo un ragazzino e si è dimostrata estremamente ospitale con me e con la mia famiglia. Venivamo dalla Francia senza aver mai prima vissuto all’estero, ricordo che addirittura non c’era nemmeno la passione per il calcio nella mia famiglia… Insomma, ci eravamo lanciati in una vera e propria avventura, in senso letterale.
Credo di aver reso bene sul campo anche perché la gente mi ha fin da subito apprezzato e valorizzato. Ho trovato l’ambiente ideale per maturare. Non finirò mai di ringraziare Massimo Cellino, che ha creduto in me quando nessuno mi conosceva, tutta la società e i compagni dell’epoca. Non c’è stato un solo singolo aspetto di quell’esperienza cagliaritana che non sia andato per il meglio. Per questo la mia riconoscenza va alla Sardegna, che non vedo l’ora di far conoscere anche ai miei figli, e al popolo sardo, assieme agli auguri per un futuro da protagonisti in serie A.”