ESCLUSIVA TC - ALDO FIRICANO: "I miei anni fantastici a Cagliari, tra grandi risultati e allenatori geniali. Nel '94 non eravamo inferiori all'Inter: l'episodio del rigore su di me poteva cambiare la partita"

ESCLUSIVA TC - ALDO FIRICANO: "I miei anni fantastici a Cagliari, tra grandi risultati e allenatori geniali. Nel '94 non eravamo inferiori all'Inter: l'episodio del rigore su di me poteva cambiare la partita"TUTTOmercatoWEB.com
© foto di Federico De Luca
giovedì 13 luglio 2023, 22:26Primo piano
di Matteo Bordiga

C’è stato Tomasini, c’è stato Cera. Per un certo periodo di tempo c’è stato anche il totem Mario Brugnera, riadattato dal suo precedente ruolo di centrocampista offensivo. E infine c’è stato lui, Aldo Firicano: il libero per antonomasia, l’ultimo baluardo prima del portiere. Il leader e l’uomo d’ordine della difesa, il comandante del reparto arretrato che con la sua esperienza dirige le operazioni e detta i movimenti ai compagni.

Ultimo grande interprete del ruolo in maglia rossoblù, Firicano ha disputato ben sette stagioni in riva al Poetto, attraversando l’era più luminosa ed entusiasmante del Cagliari dopo i fasti dello Scudetto. Un periodo d’oro contrassegnato da una strepitosa promozione in serie A e da annate vissute nel campionato più difficile e competitivo del mondo sempre da protagonisti, toccando le vette più alte con la qualificazione europea del 1993 e con la semifinale Uefa del 1994, utopia infranta dall’Inter che impedì di trasformare l’impresa in leggenda.

Il Cagliari della prima metà degli anni Novanta, soprattutto in casa, era uno spettacolo. Una squadra ostica per tutti gli avversari, comprese le big dell’epoca che erano anche le compagini più forti e attrezzate d’Europa. Firicano ricorda quegli anni con nitidezza e con un pizzico di nostalgia. Perché se Cagliari è stata, forse, la tappa più esaltante della sua carriera, la notte di San Siro dell’aprile 1994 è stata probabilmente la più grande amarezza della sua vita.

Aldo, lei arrivò in Sardegna nel 1989, trovando una squadra che era appena risalita dalla serie C. Da lì cominciò una marcia trionfale che vi portò in pochi anni dalla serie B alla possibilità di toccare con mano traguardi incredibili e insperati. Cosa ricorda di quegli anni?

“Arrivai al Cagliari un po’ sotto traccia. Giocavo nell’Udinese, che si apprestava a fare la serie A. Pensavo dunque di poter sbarcare anch’io in massima serie, ma vari intrecci di mercato mi portarono ad accettare la corte serrata del Cagliari, che aveva dimostrato di volermi a tutti i costi. Furono soprattutto Longo e Ranieri a convincermi a sposare la causa rossoblù, anche se all’epoca, visto che avrei dovuto farmi un altro campionato di serie B, quella scelta ai miei occhi assomigliava molto a un declassamento. Tuttavia mi ricredetti subito: contro tutte le aspettative conquistammo immediatamente la serie A, per cui tornai in men che non si dica in massima divisione e lo feci da protagonista, dopo essermi conquistato una maglia da titolare con Ranieri. Alla fine dei conti, la decisione di lasciare Udine per Cagliari si era rivelata giusta.”

Come giocavate con Ranieri in serie B e nel primo anno di A, il ’90-’91? Lei veniva schierato come libero in una difesa a tre, modulo abbastanza tradizionale per l’epoca.

“Per la verità io avevo iniziato da centrocampista. Al mio arrivo in Sardegna quello era il mio ruolo. Ma Longo e Ranieri, in sede di trattativa, mi avevano prospettato la possibilità di venire arretrato in difesa, ricoprendo potenzialmente più mansioni. Nell’anno di serie B giocai prevalentemente da libero in una difesa a tre, ma qualche volta mi disimpegnai anche a centrocampo, in circostanze particolari. In una gara finii addirittura per fare l’attaccante. Tuttavia, se quella prima stagione per me fu un po’ sperimentale, ormai la linea era tracciata: nel resto della mia carriera ho quasi sempre fatto il difensore centrale, o libero che dir si voglia. Come nei successivi anni a Cagliari, dopo l’addio di Ranieri, sotto la guida di altri allenatori.”

A proposito di allenatori, lei in Sardegna ne ha avuti di straordinari: da Ranieri a Mazzone, da Bruno Giorgi a Trapattoni. Chi le ha lasciato il miglior ricordo o l’ha impressionata maggiormente?

“Ho avuto uno splendido rapporto con tutti. Erano maestri indiscussi, ai quali ho cercato di rubare qualcosa, dopo aver appeso le scarpette al chiodo, nella mia carriera di allenatore. Tra l’altro Ranieri e Trapattoni, dopo Cagliari, li ho ritrovati a Firenze.

Se devo fare il nome di un tecnico che mi ha particolarmente sorpreso, dico Oscar Washington Tabarez. C’era qualche pregiudizio sul suo conto, dato che veniva dall’Uruguay. Ma si è rivelato un grande insegnante di calcio, oltre che una persona squisita ed empatica, bravissima nel trasmettere i suoi principi ai giocatori. Tra l’altro dal punto di vista tattico a mio avviso è stato anche un precursore, perché in quel periodo il modo di giocare delle squadre italiane era abbastanza schematico. Lui invece, provenendo da un mondo diverso, è riuscito a diversificare, adattando il modulo alle caratteristiche dei giocatori e dimostrando notevole flessibilità: si poteva giocare con un attaccante, con un centrocampista o con un difensore in più o in meno. Versatilità era la sua parola d’ordine. Mica poco, in un calcio che a livello nazionale e internazionale, come dicevo, era piuttosto dogmatico.”

Aldo, non posso esimermi dal chiederle - da leader della difesa quale era - cosa è mancato al grande Cagliari ’93-’94, artefice di una campagna europea travolgente, per conquistare la finale col Salisburgo. Cosa avreste potuto fare nella maledetta gara di San Siro con l’Inter che, invece, non avete fatto? I nerazzurri erano così superiori a voi?

“Nella maniera più assoluta. La qualificazione alla finale era alla portata. Sicuramente ha giocato un ruolo determinante lo sforzo mentale che avevamo fatto nella gara precedente di campionato contro la Reggiana, che era lo snodo cruciale nella lotta per la salvezza. Quella partita ci aveva risucchiato tante energie nervose. In più siamo rimasti per ben tre giorni a Milano prima del match di San Siro: un’attesa forse troppo lunga, che ha finito per scaricarci ulteriormente. Detto questo, a mio avviso nel primo tempo avremmo potuto anche pareggiare. C’era un calcio di rigore nettissimo, per una spinta ai miei danni, che l’arbitro non ha concesso. Col VAR non ho dubbi che sarebbe stato assegnato. Siccome le partite con gli episodi cambiano, andare sull’1-1 prima dell’intervallo probabilmente ci avrebbe permesso di interpretare una gara completamente diversa nella ripresa. Vero che con i se e i ma non si fa la storia, ma trovare il pareggio con un gol in trasferta sarebbe stato preziosissimo per noi, anche dal punto di vista psicologico.

Poi bisogna ammettere che quella sera, soprattutto nel secondo tempo, non siamo stati il solito Cagliari arrembante e convincente che quell’anno affrontava gli impegni europei. Assieme alla notte contro il Trabzonspor, la serata di San Siro è stata la nostra esibizione meno brillante nel torneo continentale. Ma, devo ripetermi, gli episodi condizionano. E la nostra Coppa Uefa è stata costellata da episodi arbitrali a noi sfavorevoli. Quello che è accaduto a Torino contro la Juventus nel quarto di finale lo ricordano tutti, ma anche nel primo turno con la Dinamo Bucarest siamo stati pesantemente penalizzati da un rigore solare a noi negato e da un altro inesistente concesso ai rumeni. Diciamo che non godevamo di una grande protezione da parte degli arbitri. Del resto non eravamo un top club d’Europa: a noi non era riservata la considerazione che magari avevano altre squadre.

Non riuscire ad arrivare in finale, per quanto mi riguarda, è stata la più grande amarezza della mia carriera. A Milano ho vissuto una serata tristissima. Anche perché, se avessimo giocato la finale e se per caso avessimo sollevato il trofeo, saremmo stati ricordati come delle leggende immortali. Alla stessa stregua del Cagliari di Gigi Riva.”

Veniamo all’anno di Trapattoni: 1995-’96. Una stagione complicata, nonostante le premesse entusiastiche della vigilia. Ci si aspettava una nuova qualificazione in Europa, arrivò una salvezza tormentata preceduta dall’eclatante esonero del Trap. Cosa non funzionò tra il tecnico di Cusano Milanino e il Cagliari?

“Difficile dirlo. L’allenatore è un elemento chimico che scatena una reazione. Forse tra il Trap e quel Cagliari non scoccò la scintilla. Tra l’altro sia lui che noi eravamo convintissimi di poter fare un ottimo campionato. Ma a volte, nelle squadre, si verificano delle situazioni e delle dinamiche – anche difficili da spiegare – che finiscono per pregiudicare l’andamento di un’intera stagione. Di fatto, con l’avvento di Giorgi in sostituzione del Trap le cose si rimisero un po’ a posto, e chiudemmo in crescendo con la salvezza.

Non mi sento, tuttavia, di attribuire particolari colpe a Giovanni. Considero quell’annata come una sorta di incidente di percorso. Piuttosto, qualche responsabilità ce l’avemmo noi giocatori: quando arriva un grande allenatore talvolta capita di pensare che le cose possano magicamente andare per il verso giusto grazie all’esperienza e al carisma del tecnico. Invece la verità è che chi siede in panchina può dare una mano, anche importante, ma a determinare alla fine sono sempre i giocatori. E ora che faccio anch’io l’allenatore da tanti anni questa convinzione in me si è fatta ancora più forte.”

Il ritorno del Cagliari di Ranieri in serie A: una favola che si ripete oltre trent’anni dopo la vostra. Quale futuro, secondo lei, può avere il sodalizio rossoblù col tecnico romano in panchina?

“Quella che ha scritto Claudio è una bellissima storia. Lui è un tecnico sempre sulla cresta dell’onda, sempre attuale e sempre più incisivo. Ripetere dopo tutto questo tempo un’impresa come quella che compì con noi alle porte degli anni Novanta è stato un vero capolavoro. Ora secondo me il Cagliari deve cavalcare l’entusiasmo di una promozione arrivata in modo così esaltante e rocambolesco, dopo tutte le vicissitudini che hanno contrassegnato squadra, società e ambiente negli ultimi anni. L’obiettivo dovrà essere quello di strutturarsi e consolidarsi in serie A, partendo magari da una salvezza tranquilla per poi alzare progressivamente il tiro delle ambizioni. Un campionato interlocutorio, magari con alcune difficoltà, va messo in preventivo. Poi la crescita di qualche giovane, la ritrovata confidenza con la massima serie e il progetto tecnico varato da tecnico e società potranno consentire di migliorare piano piano e di provare a puntare all’obiettivo dichiarato di Giulini: il decimo posto, o comunque la parte sinistra della classifica.

Gli esempi da prendere a modello sono quelli di Monza e Sassuolo: formazioni che sono partite dai campionati inferiori e hanno saputo costruirsi – in particolar modo il Sassuolo – una storia importante nel calcio italiano attuale.”